Il Settecento
Chiuso l’esaltante periodo seicentesco, quando la cappella ducale prosperò sotto la guida di tre fra i più grandi musicisti del periodo – Alessandro Grandi, Claudio Monteverdi, Francesco Cavalli e Giovanni Legrenzi – si passò ad un secolo non meno fervido, caratterizzato da figure straordinarie e fondamentali per lo sviluppo della composizione sacra europea del XVIII secolo. I quattro Maestri di Cappella più celebri – Biffi, Lotti, Galuppi e Bertoni – si alternarono con figure di non minore importanza – come Giovan Battista Pescetti – in quel Settecento che fu l’ultima grande epoca della Serenissima Repubblica Veneta (1797).
L’organico della cappella ducale negli anni finali del Seicento è prevalentemente formato da una cinquantina di voci (che si alternano nei periodi di assunzione e di giubilazione degli stessi) e strumentisti in numero leggermente minore, con alcune interessanti particolarità: risultano ancora in carica quattro cornetti, quattro tiorbe e otto tromboni, un organico già demodé oltralpe. Già negli anni novanta del Seicento appare però l’oboe e agli inizi del secolo successivo assistiamo ad una decisa epurazione: lo svecchiamento della cappella stessa porta ad un numero di componenti di gran lunga minore, mentre pian piano si cerca di garantire una maggiore regolarità all’equilibrio degli organici, strada che verrà seguita sino alla riforma spesso attribuita ad un Galuppi altrimenti affaccendato (si trovava materialmente in Russia, alla corte di Caterina II) ma da riconoscere alla saggezza di Gaetano Latilla, suo vice maestro e reggente della cappella nel periodo di San Pietroburgo che porterà a rinnovare secondo gli standart dell’epoca la Cappella, attraverso una accorta politica di pensionamenti e una equilibrata rappresentanza del quartetto vocale (sei voci per ciascuno dei quattro registri, con i soprani ovviamente castrati e con i contralti in parte falsettisti in parte a loro volta sopranisti o evirati), all’orchestra raggiunge una conformazione imponente: dodici violini, quattro viole quattro violoncelli, sei violoni; tutti archi indispensabili per garantire una maggiore tenuta melodica e ritmica. Si aggiungono poi l’insieme dei fiati – a coppie, come era in uso – con flauti, oboe, fagotti, corni, trombe e tromboni.
Seppure rinnovata nella sua conformazione e aggiornata a stili musicali moderni, la cappella continuava ad officiare secondo le tradizioni sedimentatesi tra il Cinque e Seicento, con compresenza di generi assai diversi tra loro, come dimostra la Tavola dei giorni di tutto l’anno, nei quali cantori, organisti e suonatori devono intervenire datata 28 febbraio 1765: in alcune feste la cappella con i soli cantori officiavano son semplice polifonia e canto plano, come nel giorno della festa della Conversione di San Paolo (25 gennaio) dove la cantori cantavano al Vespero senza palla (d’oro) e cantava nel giorno la Messa a Cappella. Continuano a venire utilizzate disposizioni antiche, previste dal cerimoniale, come l’uso del Bigonzo nelle messe polifoniche, o postazioni più recenti come i palchetti posticci costruiti nel presbiterio nel Seicento, dove andavano a disporsi strumenti e cantori alla maniera “battente” per eseguire le fastose composizioni concertate, frutto cioè della compresenza di voci soliste, di coro e di ricche parti strumentali come nel Giorno di Pasqua dove la messa era officiata negli Organi, co’ palchetti e stromenti. Questa prassi trova in San Marco la propria consacrazione: le feste in tabella da celebrare con pompa dal Primicerio con l’assistenza cerimoniale di tutto l’assetto politico della Repubblica (Doge in primis) sono infatti musicate con gran fasto, accogliendo l’organico al completo. Per circa duecento volte all’anno (comprese quelle sopra descritte, e in più naturalmente tutti i sabati e le domeniche e le altre festività liturgiche, all’epoca più numerose di quelle di oggi) la celebrazione della liturgia è accompagnata dal solo coro polifonico; tutte le altre feste prevedono invece il canto non di professionisti, bensì di sacerdoti e di chierici. Una ulteriore caratteristica è data dalla presenza quasi simultanea di queste pratiche: anche nelle festività maggiori, alle esecuzioni concertate si accostano e compenetrano esecuzioni in canto plano, mescolando generi diversi in una unica occasione.
I due più celebri Maestri di Cappella di questo periodo, Antonio Lotti e di Baldassare Galuppi hanno in comune più di quanto si possa pensare: gli aspri rimbrotti al giovane Baldassarre (‘sior toco de temerario’, lo apostrofa Benedetto Marcello) che osa inizialmente affrontare il pubblico senza adeguata e completa preparazione, suggeriscono allo stesso compositore un breve ma intenso discepolato proprio con il veneziano Lotti, esperto sia nella realizzazione del contrappunto (indispensabile alla componente sacra) sia nell’affrontare l’agone operistico grazie anche alle proprie frequentazioni ‘domestiche’ (aveva anch’egli sposato una cantante, Santa Stella).